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Luca Pignatelli: «Sempre di corsa, non sappiamo più cos'è l'attesa»

di Francesca Bellola

L'artista: nei miei dipinti c'è lo scorrere del tempo. In queste giornate riflessive conosciamo tutte le nostre fragilità.

«Il tempo decostruito. Non riusciamo più ad apprezzare il piacere di un tempo lungo di un'attesa, con la speranza che un desiderio si realizzi. In queste giornate più riflessive abbiamo bisogno di comprendere la nostra fragilità umana». Parole di Luca Pignatelli, artista milanese - nonché figlio d'arte del celebre Ercole -, le cui grandi opere hanno un rapporto imprescindibile con lo scorrere di immagini, suggestioni, eventi, forme provenienti da epoche diverse, proiettate nella nostra realtà. Il tutto contestualizzato attraverso l'utilizzo di materiali anomali provenienti da magazzini, cantieri, aree dismesse.

Cosa ricorda della sua infanzia?
«Una casa enorme vicino a corso Italia a Milano. Tra l'abitazione e lo studio c'erano delle scale che portavano ad una gigantesca wundercammer, cioè dei locali colmi di oggetti vari, libri e tavoli allestiti come fossero un'installazione. Questo luogo precedeva lo studio di mio padre. Per me era un mondo irrangiungibile. A volte salivo di nascosto e lo guardavo mentre lui dipingeva ascoltando la musica classica».

Artista si nasce o si diventa?
«Mio padre ha avuto una fortuna ed una dote originata dalla sua nascita. Si nasce artista, ma la mia visione dell'arte è fatta anche di stratificazioni lente e di un lavoro strutturato e continuo».

Cosa le ha insegnato suo padre?
«Ha sempre avuto una grande naturalezza nel disegno e una ossessività: lui disegnava quando era al telefono, quando era a tavola. Direi il lavoro come normalità».
Quindi la sua scelta artistica è stata naturale.
«Ho studiato architettura al Politecnico di Milano, ho fatto tutti gli esami anche se non ho dato la tesi per una scelta esistenziale. All'improvviso ho annullato tutto per fare una mostra senza sovrastrutture».

Lo scorrere del tempo è sempre presente nei suoi lavori. Cosa rappresenta?
«Tremila anni si comprimono in uno choc temporale, come la solidificazione di qualcosa che ha gestato per molto tempo. Cerco di mettere insieme tempi diversi, usando materiali differenti».

Utilizza materiali non convenzionali come legno, ferro, pezzi di carta assemblati, catrame, teloni che rivestivano i treni che provenivano dalla guerra...
«Riguarda una mia interpretazione dei fenomeni naturali, storici, artistici, e anche autobiografici. Utilizzo i detriti, dipingo le vecchie scatole di legno che contenevano i prodotti farmaceutici, per far riemergere una naturale bellezza attraverso la povertà di questi materiali. Quando ero bambino andavo alla Fiera di Senigallia per acquistare gli scarti della guerra come i sacchi a pelo, strappi, lacerti scoloriti che avevano una tensione cromatica paragonabile all'Africa del nord».

Come vede la situazione del Coronavirus?
«Da molto tempo si è cercata compulsivamente un'accelerazione non solo capitalistica, ma anche dell'essere delle persone, quindi una corsa alla realizzazione eccessiva per avere successo. Dallo sfruttamento compulsivo delle risorse naturali e dell'ambiente si genera un crac. La mia idea è che si stia correndo troppo, questo lo diceva anche Pier Paolo Pasolini quando parlava di un ritorno alla campagna; va bene il progresso e l'evoluzione tecnologica, ma c'è una considerazione di una parte più ristretta della sovrapproduzione che viene costruita e programmata per autodistruggersi ed essere riprodotta».

Se non avesse fatto l'artista cosa avrebbe fatto?
«A me piacerebbe capire alcuni fenomeni legati alle persone. L'uomo è un modello ripetuto all'infinito, però ognuno è diverso dall'altro. Forse avrei fatto lo psichiatra».

Cos'è la bellezza?
«Dove c'è l'interesse vedo la bellezza. La vedo anche in un fuoco, nell'asfalto, in un pezzo di legno. Quando mi fermo, solitamente o sono in pericolo, o mi trovo davanti alla bellezza».

continua...su "Il Giorno"

 
 
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Viaggio nell'Arte con Francesca Bellola

Rikke Laursen

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