Mattia Barbalaco torna alla Blu Gallery con una mostra che prosegue il soggetto affrontato nella
precedente esposizione: L’abito fa la monca – Parte seconda è un ciclo di opere che esaurisce una
ricerca, in vista di una nuova apertura tematica. Lo stesso approccio lega le due parti in cui l’artista, in
questa seconda fase più consapevole e maturo, analizza micromondi, categorie sociali inusuali che
servono da campioni per raccontare filosofie più grandi e universali. L’ambientazione è la medesima,
ossia lo spazio monastico in cui il pittore ha ricevuto la prima educazione, dove oggetti quotidiani
come guanti e rosette di pane ritornano con aperta forza simbolica.
Barbalaco ritrae momenti di quotidianità, concentrando gesti e pose in piccoli attimi. Le suore,
protagoniste di un’unica storia schiva, sembrano essere mutate ed essersi evolute insieme al percorso
dell’artista. Le figure sono rassegnate e meditative perché ormai l’abito, tunica e habitus allo stesso
tempo, ha avuto il sopravvento sulle donne. Se in precedenza i corpi nudi si dibattevano nelle tonache,
adesso la loro essenza ha concluso la metamorfosi, si è riconciliata in sfoghi incerti tra il respiro
meditativo e l’urlo feroce. Le monache non mostrano più un’intimità compiaciuta e condivisa, una
ribellione alla loro scelta con la complicità dello spettatore. L’esterno, di cui noi facciamo parte, è
lontano e inessenziale, perché la loro essenza è finalmente pura e riflessiva. Solo la novizia ci guarda, ci
invita, come fecero le altre prima di lei, quasi ponte tra i due cicli.
L’arte è il mezzo epifanico con cui Mattia Barbalaco ci permette di esplorare questo mondo, così tanto
personale e riservato. È sorprendente la capacità del giovane maestro: con gli stessi colori era riuscito
a creare frenesia, perturbazione. Adesso i medesimi toni ci calano dentro eghi un po’ più claustrofobici
ma, infine, risolti e totali. Comunque, la chiave interpretativa non è didascalica o assoluta ma si muove
su sussurri emotivi allo spettatore che, se nella precedente mostra sfiorava il voyeurismo, nell’attuale
viola uno spazio intimo non più fisico ma mentale. L’artista ci consente di cercare in queste storie un
senso individuale, attraverso un teorema di immagini quotidiane che si susseguono fino ad arrivare
all’ultima, chiusura simbolica di questa fase. Esuvia è l’abito che fu la monca, che l’ha avvolta, l’ha
protetta e costretta, nel difficile momento della mutazione al di là delle teorie darwiniane.
L’esoscheletro abbandonato di una forma precedente si è finalmente trasformato in habitus
introiettato, dando vita a qualcosa di isomorfo all’involucro ma diverso, più profondo e completo.
CHIARA MASCARDI