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Segantini in mostra a Palazzo Reale

di Stefano Pariani

Giacometti, palazzo reale, milano“Non cercai mai un Dio fuori di me stesso perché ero persuaso che Dio era in noi e che ciascuno di noi ne possedeva e ne poteva acquistare facendo delle opere belle, buone o generose, che ciascuno di noi è parte di Dio, come ciascun atomo è parte dell'universo”. Con queste parole di Segantini scritte lungo la parete di una delle prime sale della mostra, si può sintetizzare il percorso artistico di un pittore-vate che sul finire dell'Ottocento ha cercato nella realtà quel sottile filo che unisce vita e morte alla natura.

Milano rende omaggio all'artista che qui si formò ancor giovane prendendo le mosse da una pittura ancora scapigliata e realista per poi passare ad indagare una realtà sempre più trasfigurata verso il simbolismo. Lo fa con una mostra, allestita a Palazzo Reale e curata da Annie-Paule Quinsac e da Diana Segantini, pronipote dell’artista, che risulta esaustiva e dal percorso chiaro nel delineare l'iter del pittore di origine trentina attraverso più di 120 opere provenienti dalle principali collezioni pubbliche e private europee e statunitensi.

Le prime opere in mostra sono appunto legate agli anni milanesi, in cui Segantini, con un naturalismo da istantanea, realizza ritratti, scene di genere, vedute della città attraverso dipinti dagli evidenti valori luministici e dal vivace cromatismo materico, già a partire da “Il coro di Sant'Antonio” (1879) con cui a 21 anni si fa conoscere al grande pubblico alla mostra di Brera ed entra in contatto con Vittore Grubicy, famoso gallerista e mecenate. Seguono scorci della Milano dei Navigli, come “Giovane donna in via San Marco” (1879/80), “Il Naviglio a ponte San Marco” (1880) e “Nevicata sul Naviglio” (1880).

Nel 1881 Segantini si trasferisce in Brianza, ma rimane legato alla borghesia cittadina che rappresenta una fonte di reddito per i giovani artisti. La nuova borghesia imprenditoriale, all'indomani dell'unità nazionale, è alla ricerca di nature morte per adeguare gli interni delle proprie dimore allo status sociale a cui appartengono e Segantini, sulla scia di altri artisti come Filippo Carcano, realizza una serie di dipinti, alcuni di grandi dimensioni, che, a differenza delle classiche nature morte, non si pongono come una riflessione sulla vanitas o sulla caducità delle cose, ma intendono restituire con immediatezza quasi tattile profumi e sapori di una tavola domestica. Segantini, Palazzo Reale , MilanoI soggetti più ricorrenti sono frutti sparpagliati sulla tavola, selvaggina, formaggi e salumi; in mostra troviamo “Funghi” (1886), lo schietto realismo di “Pesci” (1886), commissionato dall'editore milanese Treves, e “La gioia del colore (Il prosciutto)” (1886).

Il contatto con la natura e la campagna brianzola aprono comunque una nuova strada iconografica e Segantini, che proveniva da un paese agricolo, torna così al mondo dei contadini con una nuova sensibilità rivolta verso la natura e le cose semplici ed un progressivo passaggio dalla pittura tonale e fluida ad una di impasto più materico, fino a giungere alla scomposizione in filamenti. Sono gli anni che vanno dal 1882 al 1892, che la mostra sintetizza con alcune straordinarie tele come “La raccolta delle zucche” (1883/84), dove il quotidiano e antico lavoro delle contadine viene per un momento interrotto da un treno, segno dei tempi che avanzano, che scompiglia i vestiti di una di esse col suo passaggio e il suo vapore. Altra grande tela, “La raccolta delle patate” (1885/86) mostra uno spazioso scenario agricolo dove un cielo scuro e temporalesco sembra lottare con i campi luminosi, mentre il panoramico “Alla stanga” (1886), costato sei mesi di lavoro in isolamento a Caglio, rivela un paesaggio sconfinato, tutto realizzato en plein air, una grande e sontuosa regia dove la natura, arcaica e misteriosa, è la vera, grande protagonista.

Una sezione è dedicata all'”Ave Maria a trasbordo” (1886), uno tra i più celebri dipinti di Segantini, affiancato da una serie di disegni preparatori. L'attenzione di Segantini, anticlericale da sempre ma teso ad una spiritualità universale, è tutta rivolta alla religiosità degli umili, all'ingenua e semplice ritualità contadina con quella dolce mestizia della luce mattutina (ma potrebbe essere anche crepuscolare) che illumina le pecore e fa vibrare le figure della madre e del bimbo uniti in un abbraccio nella quiete di uno scorcio lacustre.

Nel 1886 Segantini si trasferisce sulle Alpi svizzere, prima a Savognin nei Grigioni e successivamente a Maloja in Engadina, vivendo spesso in solitudine. E' quasi una simbiosi tra l'uomo e l'ambiente della montagna ciò che emerge da dipinti come “Costume grigionese” (1887), in cui la figura di Barbara Huffer, la tata dei figli di Segantini, ha una sua valenza non in quanto ritratto in senso classico, ma per quel gesto così naturale e in primo piano dell'avvicinarsi a bere alla fonte d'acqua, incurante dello sguardo dello spettatore. Le ultime tele in mostra dedicate al paesaggio delineano un accostamento sempre più deciso al panteismo, dove protagonista è una natura eterna e serena, ma quasi distaccata e indifferente; la presenza umana diventa solo una componente del suo scenario. E' tutto avvolto dalla neve il paesaggio desolato e silenzioso di “Ritorno dal bosco” (1890), “sospeso” e cristallino quello di una giornata serena, dal cielo terso, di “Mezzogiorno sulle Alpi” (1891), dove una contadina, che pare immobile come una statua, guarda all'orizzonte, e di maestosa bellezza quello de “La raffigurazione della primavera” (1897), dove nella panoramica orizzontalità della tela campeggia una natura luminosa, una Grande Madre, che però è anche indifferente al lavoro rituale che si ripete ogni anno, come quello del contadino che semina o della donna che trasporta i cavalli.

Concludono il ricco percorso della mostra le celebri tele simboliste di fine Ottocento; una di queste è “Le due madri” (1889), autentico capolavoro di tecnica divisionista e opera profondamente legata alla tradizione pittorica lombarda per il suo realismo, che affronta il tema della maternità universale, unendo nel silenzio notturno di una stalla l'eterno ciclo della vita che accomuna una madre e il suo bimbo alla natura, quasi una fusione tra l'elemento umano e quello animale. Sfumature oniriche entrano in gioco nei fascinosi “L'angelo della vita” (1894), dove Segantini torna sul tema della maternità immersa nella natura, con quella madre col bambino seduta sui rami di un albero che rappresenta l'evento tutto terreno della nascita di cui la natura è partecipe, e “L'amore alla fonte della vita” (1896), dove il ciclo eterno della vita si traduce nel ritorno della primavera, in una visione panteista e misteriosa in cui anche un piccolo filo d'erba è portatore di un significato più profondo e fa parte di una spiritualità universale.

C'è un grande assente alla mostra, il “Trittico delle Alpi” (1896/99), testamento spirituale di Segantini, che proprio lavorando in solitudine nell'arco di tre anni a quest'opera, un'enorme rappresentazione dell'Engadina, trovò la morte a soli 41 anni nel 1899 a Shafberg sul Maloja per una peritonite dovuta al freddo e alle dure condizioni climatiche del luogo. Conservato al Museo di St. Moritz e mai prestato al di fuori della Svizzera per le gigantesche dimensioni delle tele, il trittico è visibile in mostra solo attraverso delle immagini che scorrono su di uno schermo, affiancato da disegni e studi preparatori. E' un peccato non poterlo ammirare qui, ma il visitatore potrà ovviare a questa mancanza con le abbondanti e significative opere presenti in mostra, una tra le più interessanti a Milano in questo periodo, che chiarisce con precisione come non esista un “Segantini naturalista” ed un “Segantini simbolista”, ma tutte le opere dell'artista facciano parte di un iter unico e di una riflessione che diviene negli anni sempre più convinta e matura nel suo contatto intimo e quasi estremo con la natura.

Stefano Pariani

Palazzo Reale - Milano

18 settembre 2014 – 18 gennaio 2015

www.mostrasegantini.it

 

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