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Ugo Nespolo, «fuori dal coro» innamorato di Milano

nespolo

 di Francesca Bellola

 Le riflessioni dell'artista dopo che Palazzo Reale gli ha dedicato una retrospettiva di successo

«Nutro una certa insofferenza per la mediocrità. Rivendico la figura dell'artista come intellettuale che sa scegliere una strada e motivarla». A parlare è Ugo Nespolo, pittore, illustratore, scenografo, cineasta, designer e molto altro, in occasione della sua mostra estiva dal titolo “Fuori dal coro”, da poco terminata a Palazzo Reale. Il celebre artista, laureato in Lettere e ad horonis causa in Filosofia conferita quest'anno a Torino, citta nella quale vive, vanta una strepitosa carriera. I suoi esordi risalgono agli anni Sessanta, alla «Pop Art», sino ad arrivare all'arte Povera per approdare a quella concettuale. Gli assemblaggi dei suoi vivaci puzzles sono diventati il suo marchio di fabbrica. Nespolo si è contraddistinto anche nella grafica pubblicitaria con le campagne dedicate a Campari e alla Richard Ginori di cui è stato il direttore artistico.

La mostra a Palazzo Reale è andata bene.

«Ne sono felice. E' un percorso non soltanto cronologico, partito dai primi lavori che anticipavano l'Arte Povera di Germano Celant, per proseguire con le bottiglie Molotov legate allegramente alla politica, sino a proporre, per protesta, lavori realizzati con materiali preziosi. Volevo mettere in scena la capacità esecutiva che stava scomparendo. E poi i libri, il teatro, il cinema al quale mi sono dedicato molto».

La sua carriera inizia a Milano

«Sono molto legato alla città meneghina. Ho iniziato a esporre negli anni '67, '68 da Schwarz, in via Gesù, una delle più importanti gallerie a livello internazionale, con nomi quali Duchamp, Marcel Janco, Gillo Dorfles, etc. Avevo poco più di 20 anni, mi sembrava di toccare il cielo con un dito».

Nonostante i suoi numerosi viaggi, è rimasto legato al capoluogo lombardo.

«E' vero, avevo lo studio in centro con Enrico Baj in via Gabba, in fondo a via Montenapoleone. La città dove ho lavorato per una vita intera, è sempre stata generosa con me».

Una delle sue grandi passioni è il cinema. Com'è nata?
 
«Sono stato tra i primi artisti che andava più assiduamente negli Stati Uniti negli anni '66, '67, '68. Anche Mario Schifano era un viaggiatore. Eravamo infatuati di quello che succedeva in America come la nascita della Pop Art con Andy Wharol ed il cinema sperimentale. Successivamente il cinema ha preso varie direzioni e provenienze, in particolare quella europea surrealista di Man Ray di cui sono diventato amico qualche anno dopo a Parigi».

Un'attrazione innegabile, non c'è che dire...

«Grazie a Fernanda Pivano, portai a Milano il New American Cinema, così si fecero le prime rassegne di cinema sperimentale. L'idea era quella di utilizzare la cinepresa come fosse un pennello, badando meno all'aspetto tecnico e funzionale e più a quello emotivo e creativo».
Nei suoi numerosi film hanno recitato interpreti eccellenti.

Nei suoi numerosi film hanno recitato interpreti eccellenti

 «Ho realizzato film come “Grazie Mamma Kodak”, “La galante avventura del cavaliere dal lieto volto”, “Neonmerzare”, “Buongiorno Michelangelo”, che avevano come protaconisti gli amici Enrico Baj, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Alighiero Boetti».


Qual è la differenza tra il cinema e i quadri?

«I film vengono proiettati tuttora nei maggiori musei del mondo, dal Centre Georges Pompidou di Parigi al Philadelphia Museum of Modern Art. La bellezza di questo cinema, a differenza dei quadri, ha una purezza che non è contaminata dal mercato; non ha prodotto soldi ma idee».

Ci racconti un aneddoto.

«Nel vergiatese, in provincia di Varese con Enrico Baj abbiamo fatto indossare a Lucio Fontana una divisa ottocentesca per interpretare una improbabile Piccola Vedetta Lombarda, il racconto tratto dal libro “Cuore” di Edmondo De Amicis. Volpini saliva su un albero e Fontana dirigeva. Un film spassosissimo».

Come ricorda Fontana?

«Lo chiamavamo sciôr Lucio, era una persona speciale, squisita ed educata».

Tra i tanti ambiti in cui si muove c'è anche la scrittura.

 
«Scrivere mi appaga. Nel mio ultimo libro che si intitola “Maledette Belle Arti”, mi batto per gli artisti che lavorano al di fuori dagli schemi, senza essere per forza à la page».


Cosa ne pensa del nuovo skyline milanese?

 

«Ne sono entusiasta, ho la casa a Milano, una delle mie figlie si è laureata alla Bocconi a soli 21 anni. E' una città internazionale che dà molto, a differenza di altre che sono austere».

 

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Rikke Laursen

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