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I blues di Parigi

Freedom Rides dagli States alla Senna

newmanE' un amore antico quello che lega gli afroamericani alla città più romantica del mondo, ammaliante sirena d'Oltreoceano che sussurra dolci note di uguaglianza e libertà, condizioni umane tanto agognate in una terra patria bagnata del loro sangue e sudore, terra patria che altresì si ostinava a considerare la razza nera inferiore e reietta. Basti solo pensare che i primissimi proto-insediamenti di ciò che nei secoli diverranno New York e Chicago furono opera di uomini di colore, le medesime città che, tuttavia, dopo un paio di secoli relegheranno figli, nipoti e pronipoti dei fondatori all'interno dei ghetti (casi emblematici la poverissima Black Belt chicagoana o i"projects" di inizio anni '70).

E' il 1900. W.E.B. Du Bois, noto teorico e attivista afroamericano (uno dei più impavidi e radicali, considerato il suo campo temporale d'azione), presentava all'Esposizione Universale di Parigi una sua ricerca fotografica, avente come soggetto e tema principale la dignità e la bellezza della

benestante borghesia negro­americana del periodo della Ricostruzione post­Guerra Civile, al fine di confutare le teorie scientifiche razziste di fine Ottocento che rivendicavano la superiorità intellettuale della razza angloamericana e che volevano l'intera razza nera associata a condizioni di estrema povertà e indigenza.

Passano 46 anni e Richard Wright, uno dei massimi romanzieri afroamericani di sempre (autore,  tra i tanti, dei magnifici e controversi Black Boy e Native Son) attraversa l'Atlantico e si stabilisce a Parigi, città che dopo un anno gli concederà la cittadinanza e gli regalerà l'opportunità di fare amicizia con Camus e Sartre; Wright era un figlio di Natchez, del segregato Mississippi, e Parigi riuscì a fare del talentuoso scrittore un cittadino (quindi un uomo), riservandogli una calorosa accoglienza che mai e poi mai la terra natia gli avrebbe concesso (destino analogo quello di James Baldwin, romanziere nero emigrato in Francia e protetto di Wright).

Il '61 è l'anno di Paris Blues, pellicola di Martin Ritt con vagonate di jazz (Armstrong nel cast ed Ellington che firma la trascinante soundtrack). E' la storia di due jazzisti esuli a Parigi, uno dei quali afroamericano (Sidney Poitier, il bianco è invece interpertato da Paul "Occhibelli" Newman).

E' una Parigi libertina e liberale, ma mai sopra le righe, quella di Ritt e del film, anni luce dalla moralmente combattuta America di inizio anni Sessanta, dove i sudisti di colore siedono ancora "dall'altra parte", benché il reverendo King ed il Movimento per i Diritti Civili stiano costringendo alla veglia anche le più sopite menti americane. In “Paris Blues”, Poitier, quando parla d'America con la sua ragazza incontrata di recente proprio a Parigi, sembra preso dall'orticaria, tanto è il suo fastidio ad affrontare l'argomento: ciò succede perché semplicemente, ha dimenticato la sua "americanità", americanità che, meglio, non ha mai creduto di possedere in un paese che gli ha sempre negato dignità umana e diritti.

Secolo Ventunesimo. E' l'epoca di Obama alla Casa Bianca (l'ossimoro "felakutiano" non è più ossimoro, è pura e sorprendente realtà), ma i niggaz non hanno affatto scordato Parigi. L'A$AP Rocky di "Goldie" scorrazza ai piedi della Torre Eiffel con l'oro in bocca e migliaia di dollari addosso, Sean "Jay­Z" Carter ed il suo homie Kanye West, invece, dicono di avere "negri a Parigi che son come gorilla". Altro che la fiera borghesia nera di Du Bois, "adesso stai vedendo il trono".

Il viaggio è stato lungo e impervio, e veramente tanto è cambiato, basti pensare che si è passati dalla coraggiosa protesta della mite Rosa Parks che rifiutò d'alzarsi per lasciar posto ad un bianco in un autobus segregato del sud, all' O.N.I.F.C., solo neri in prima classe del Khalifa di Pittsburgh, ma, nonstante tutto, ci sarà sempre qualche fratello che cercherà di trovare l'America a Parigi.

Luca Impellizzeri

 

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