di Stefano Pariani
C'è una fervida creatività che attraversa nel Medioevo le terre della bassa Lombardia e dell'Emilia e che ha dato i suoi più prestigiosi frutti nelle cattedrali romaniche. Ne sono noti esempi - solo per fare due nomi - il duomo di Parma e di Modena, che videro all'opera grandi architetti e scultori dell'arte romanica, come il maestro Lanfranco, Wiligelmo e Benedetto Antelami. Anche nel cuore di Piacenza, placidamente adagiata appena al di là del Po, all'ingresso del territorio emiliano, c'è un'antica cattedrale ricca di storia. In periodi come questo è tutta avvolta dalla nebbia che s'alza nelle tarde ore del pomeriggio e ovatta di silenzio la piazza in cui si erge. I documenti la vogliono costruita tra il 1122 e il 1233, in seguito ad un potente terremoto che devastò la zona nel 1117 e che fece crollare diversi edifici di Piacenza, tra cui la vecchia cattedrale di Santa Giustina.
La facciata a capanna, in marmo rosa e arenaria, è scandita in tre parti con tre ingressi e presenta un grande protiro centrale con leoni stilofori, sormontato da un ampio rosone gotico, aggiunto nel Trecento. Elegante la loggia con sottili colonnine che corre lungo tutto il perimetro superiore e che si ripete, spezzata, sopra i due protiri laterali. Insieme al rosone, essa conferisce alla monumentale facciata un senso di leggerezza. La sorpresa in questa, come in altre cattedrali dell'Italia padana, sono le vivacissime scene scolpite che si snodano come pellicole di un film lungo la facciata. Le più celebri sono probabilmente quelle di Wiligelmo al duomo di Modena, ma anche la cattedrale di Piacenza stupisce per la varietà delle sue sculture in facciata, a cui attesero il maestro Nicolò e artisti formatisi proprio sotto Wiligelmo in un periodo collocabile nel terzo decennio del XII secolo.
Il portale di sinistra, al di sotto della lunetta, presenta entro arcate, scandite da colonnine tortili, scene della vita di Cristo, a partire dall'”Annunciazione” per approdare alla “Natività” e fino all'”Adorazione dei Magi”. Le figure sono ancora piuttosto tozze e i volti “grossolani”, ma particolare è l'attenzione data ai fitti panneggi e agli orli volteggianti. Di particolare interesse per il suo quotidiano realismo la scena della “Natività”, dove Maria, stesa sul letto e avvolta dalle coperte, è assistita da un quasi preoccupato Giuseppe, che la osserva poggiando il mento sul palmo della mano. Il portale di sinistra, opera di Nicolò stesso, prosegue nell'architrave le scene della vita di Cristo, sempre separate da colonnine ed inquadrate entro archi. Si riconoscono la “Presentazione al Tempio”, la “Fuga in Egitto”, il “Battesimo nel Giordano” e le “Tentazioni di Cristo”.
Le colonne dei protiri dei due portali sono sorretti da suggestivi telamoni, dai volti un po' consumati dal tempo; uno di questi è barbuto e compie un gesto, portando una mano sul ginocchio, e reggendo con un solo braccio la colonna. Le gambe incrociate indicano la tipica posizione del saggio, cosa che fa pensare che questo telamone rappresenti la Filosofia. La vivacità delle scene scolpite prosegue all'interno, in modo meno evidente e con un'accezione decisamente più laica. Si tratta delle formelle poste sulle poderose colonne che delimitano le tre navate della chiesa: costruite attorno al 1150 dalle corporazioni della città, esse conservano piccoli riquadri che riproducono proprio i mestieri delle corporazioni stesse.
Prestando attenzione e camminando lungo la navata col naso all'insù si possono individuare i venditori di stoffe, intenti a dispiegare rotoli di stoffa in una bottega dove è presente un armadio con altri tessuti, un carradore che lavora alla ruota di un carro oppure un laborioso calzolaio. L'interno in epoca medievale doveva essere riccamente affrescato: di questi antiche pitture sono rimasti oggi pochi brani nella seconda colonna di destra, che presenta una “Madonna delle Grazie” del XV secolo nell'atto di aprire l'ampio manto per proteggere sotto di esso il popolo piacentino.
Al di sopra un'altra “Madonna col Bambino”, seduta su un grande trono gotico, è invece databile al XIV secolo. Meglio conservati sono gli affreschi di primo Seicento nella zona presbiteriale: all'intersezione tra navata centrale e transetto s'innesta un grande e luminoso tiburio ottagonale, affrescato con figure di “Profeti e Sibille” dal Morazzone nel 1626, proseguito dopo la sua morte dal Guercino. Sempre nel presbiterio, sulle volte del coro, si trovano gli ariosi affreschi dell’”Incoronazione della Vergine” e l’”Assunzione”, realizzati tra il 1605 e il 1609 da Camillo Procaccini - a cui si deve anche la pala d'altare raffigurante il “Transito di Maria Vergine” sulla controfacciata - e gli “Angeli in coro” e il “Limbo” di Ludovico Carracci. Quattro spicchi di un'unica volta che si leggono senza soluzione di continuità stilistica, segno di una stretta collaborazione tra i due artisti emiliani. “Piacenza è terra di passo”, scriveva Leonardo da Vinci nel Codice Atlantico, per la sua stessa collocazione, stretta tra il corso del Po e le colline e i monti dell'Appennino: il duomo può essere il punto di partenza di una piacevole visita a Piacenza e al suo territorio, ricco di antichi palazzi, castelli e chiese, custode di una storia millenaria.